Io & il mio amico Spongebob

(pubblicato originariamente il 23/08/12)

Ai tempi c’era la canzoncina “il sogno dei bambini è andare a Gardaland”: e allora decido che è ora di portarci mia figlia, anche perché io è un sacco di tempo che non ci torno e sono in ferie e tanto chi mi schioda dal mio lago?

C’è che, però, se uno ci va con una bimba di tre anni deve rassegnarsi a non poter far nulla di quello che vorrebbe veramente fare e dedicarsi ad attrazioni eccitanti come la grande giostra con i cavalli, il trenino panoramico e, soprattuttamente, il fottutissimo Volaplano: quaranta minuti di coda sotto il sole cocente, con una bimba in braccio che si addormenta tre minuti prima di salire su questo aeroplanino che fa il giro di una parte del parco a velocità “se vado a piedi ti supero”. E, prima di tornare a casa, alle dieci di sera… beh, come si fa a non replicare entrambe (coda & Volaplano) le eccitanti esperienze?

Beh: non si può proprio.

Fortuna che ho incontrato il mio amico Spongebob, che ha insistito per farsi fotografare insieme a me:

 team-up: Spongebob & l’Uomo Ragno

 prova a dire: “formaggio!”

 no, aspetta: dillo più forte!

e qui no… niente: stavo valutando l’ipotesi del team-up Spongebob & Tarzan, aggrappandomi al suo naso come ad una liana, quando un solerte (e antipaticissimo: bisogna lasciarli divertire, i bimbi… o no?) agente di sicurezza mi ha gentilmente detto: “scendi subito, cazzo!”

Mi è venuto in mente con un secondo di ritardo di farmi fotografare abbracciato al simpatico addetto, magari nell’atto di fargli le corna ma, si sa: il genio è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione. Ma io non sono mica il Perozzi, purtroppo, e parecchie occasioni me le perdo…

Dimentico qualcosa? Mannò… eccola qui, la mia splendida bimba:

Vallanzasca quasi libero. E poi De André, Gesù, la pena di morte & altro…

(pubblicato originariamente il 22/08/12)

Vedi il caso? Qualche settimana fa mi sono letto “Poliziotto senza pistola”, il libro di Achille Serra sulla sua carriera nella polizia milanese negli anni ’70 (giudizio finale… boh! un sacco di fatti interessanti, ma mi è sembrato troppo celebrativo della figura dell’autore -nonostante alcune figuracce di non poco conto- e della polizia), e oggi scopro che René Vallanzasca (di cui Serra è stato il principale avversario) lavora part-time dalle mie parti, sul Lago d’Iseo.

Vallanzasca mi aveva affascinato, da giuovincello, per quell’incredibile evasione dall’oblò del traghetto che avrebbe dovuto portarlo all’Asinara… un mio amico dei tempi mi disse di aver letto da qualche parte (ma potrebbe essere tutta un’invenzione: rende, però, l’idea del “mito”) che, mentre era in spiaggia a leggere il giornale, disse a un bambino: “lo vedi questo, nella foto, quello che cercano tutti? sono io“.

Ma mettiamo giù i fatti, prima: all’inizio degli anni ’70 Vallanzasca, appena ventenne, diventa il capo della Banda della Comasina, un gruppo di criminali che innalza, e di parecchio, il livello di violenza nella città, rendendosi protagonista di parecchie rapine a mano armata. Arrestato per la prima volta nel 1972 -a ventidue anni- viene trasferito in 36 carceri diverse a causa dei continui tentativi di fuga e della sua partecipazione a risse, pestaggi e sommosse.

Nel ’76 si procura l’epatite “grazie” a iniezioni volontarie di urine (e forse anche di sangue infetto), inalazioni di gas propano e mangiando uova marce. Viene trasferito in ospedale e da lì, dopo aver corrotto un poliziotto, riesce ad evadere.

Ricostituisce la banda, che porta a segno quattro sequestri di persona e una settantina di rapine a mano armata, lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Il 6 febbraio del ’77 due agenti della polizia stradale fermano la sua auto a un posto di blocco al casello autostradale di Dalmine: nel conflitto a fuoco i due agenti perdono la vita, ma riescono a ferire Vallanzasca, che cerca rifugio a Roma dove, però, non è “coperto” come a Milano… e infatti, pochi giorni dopo, viene nuovamente arrestato.

Cerca di fuggire ancora nel 1980: durante l’ora d’aria diciotto prigionieri, armati di una pistola, prendono in ostaggio un brigadiere e raggiungono l’esterno del carcere di San Vittore. Ne segue un altro scontro a fuoco con le forze dell’ordine durante il quale Vallanzasca viene ferito e, insieme ad otto dei fuggitivi, catturato.

Nel 1981, durante una rivolta nel carcere di Novara, Vallanzasca uccide un ex membro della sua banda, Massimo Loi, che insieme a due complici aveva cercato di derubare i genitori di René (al padre, settantenne, venne rotta una mandibola con il calcio del fucile) e che sarebbe stato trasferito in un altro carcere perché aveva deciso di collaborare con la giustizia: dopo averlo ripetutamente pugnalato, lo decapita e -così si racconta- gioca a pallone insieme ai suoi complici con la sua testa fino a quando, stancatosi, gli conficca un limone in bocca e la infila nella tazza di un gabinetto. Nel 1987 evade e rimane uccel di bosco per qualche mese, rilasciando anche un’intervista a Radio Popolare. Nel 1995 prova a scappare dal carcere di Nuoro, con la sospetta complicità della sua legale, l’ennesima donna rimasta troppo affascinata dal “bel René”.

Ultime note: nel 2005 il Capo dello Stato gli rifiuta la Grazia, per la quale si era battuto anche Achille Serra; dal 2010 può usufruire del beneficio del lavoro esterno, che gli viene sospeso nel 2011 perché utilizzava i permessi per vedersi segretamente con una donna. A quanto pare, invece, da qualche settimana è tornato a lavorare, stavolta per una ditta di Sarnico.

Partendo dal presupposto che non prendo nemmeno in considerazione la pena di morte: quante volte ho sentito la frase “certa gente bisogna buttarla in cella e buttar via la chiave“?

E’ giusto che uno che ha ammazzato sette persone (oltre a tutto il resto) sia più o meno libero, dopo quarant’anni di carcere?

In sette mesi e venti giorni ho bruciato la mia vita: dal luglio del 1976 al febbraio del 1977. Questo è quello che vorrei far capire ai ragazzi: sette mesi da presunto leone e trentanove anni di una esistenza scontata dietro le sbarre” (Vallanzasca, 2010)

Sette mesi e venti giorni un cazzo… comunque, sorvolando su questo “piccolo” particolare, resta la domanda: è giusto?

Tenete presente che io sono di formazione per metà anarchica (non ascolto De André solo perché mi piacciono le musiche…) e per metà reazionaria (in provincia di Bergamo nessuno, o quasi, è di sinistra).

E quindi da una parte ci sono “Il Pescatore”, “La ballata del Miché” e tutti i discorsi sul pagare per una vita “il male fatto in un’ora“, dall’altra il basilare rispetto per i familiari delle vittime, che quel “male fatto in un’ora”,  volenti o nolenti, l’hanno pagato e lo pagheranno per tutta la vita.

Ma mi rendo conto che il liquidare la pena di morte in una riga non è abbastanza: “occhio per occhio, dente per dente“: lo dice la Bibbia. Sì, ma racconta anche di Adamo ed Eva…

La ritengo non solo un abominio e una soluzione peggiore del reato ma, soprattutto, una violenza totalmente inutile.

A cosa serve? Se la paura di una condanna a morte fosse davvero un deterrente al crimine… beh: gli Stati Uniti dovrebbero essere una specie di paradiso in terra. E invece: perché in OGNI puntata di E.R. c’è una vittima di una sparatoria? Perché succede davvero così, tutti i giorni.

Secondo una ricerca del 2000, pubblicata dal New York Times, il tasso di omicidi in dieci dei dodici stati degli USA dove la pena di morte NON è applicata è più basso della media nazionale; dal 1980 al 2000, in TUTTI gli stati che prevedono la pena di morte, gli omicidi sono aumentati dal 48 al 101 per cento. Con l’unica eccezione del Delaware (paese con il più alto tasso di esecuzioni rispetto alla popolazione e con bassa percentuale di omicidi), tutte le altre statistiche sembrerebbero dimostrare l’inutilità della pena capitale come deterrente del crimine.

E non dimentichiamo gli errori giudiziari: sempre nel 2000 l’allora governatore dell’Illinois, George Ryan, fino ad allora sostenitore della pena di morte, istituì una commissione per esaminare il fenomeno. Alla luce degli incredibili risultati (quasi la metà dei condannati risultò, troppo tardi, non colpevole o colpevole di un reato diverso da quello per cui erano stati giudicati), Ryan cambiò completamente opinione, arrivando a liberare dal braccio della morte, l’ultimo giorno del suo mandato, 164 detenuti. Sempre restando agli Stati Uniti: chi può pagarsi degli ottimi avvocati (vedasi O.J. Simpson) la fa quasi sempre franca, mentre è verificato che molte delle condanne vengono comminate anche in base a ragionamenti razzisti.

C’è anche chi dice: “Ma perché io devo pagare per mantenere in vita uno che ha ammazzato un sacco di gente? Giustiziarlo costa di meno“. A parte che, quando sento una frase così, rabbrividisco… una Commissione Governativa dello stato dell’Indiana, nel 2003, ha concluso che una condanna a morte costa ai cittadini un terzo in più dell’ergastolo.

Posso provare a capire il desiderio di vendetta. A livello puramente teorico (perché certe situazioni non le si può capire davvero, fino a quando non ci finisci dentro) sono però assolutamente contrario: davvero… cosa cambia? Io mi rifiuto di pensare che, anche davanti all’omicidio di una persona a me cara, io possa davvero giustificare la mano di un boia che abbassa quella leva, uccidendo (io, in prima persona) un altro essere umano.

Dimenticavo il cattolicesimo (l’argomento è troppo complesso ma potrei riassumere la mia opinione dicendo che ritengo Gesù la più incredibile figura di cui si sia mai scritto, e la Chiesa uno dei tanti centri di potere creati dall’uomo, con qualche milione di difetti e un paio di pregi): Gesù, sulla croce, perdona i suoi carnefici. E De André fa dire, al ladro Tito: “io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore/ nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore. Credo nel perdono, credo nella possibilità -per chi ha fatto del male- di poter tornare a fare del bene.

Ma sono per la certezza della pena: ti hanno dato un (no: non ne servono quattro…) ergastolo? E tu te lo fai.

Serve un deterrente? Eccolo: quaranta e più anni di prigione, per René Vallanzasca.

Sembrano poca cosa, rispetto ad una condanna a morte? Mica poi tanto… Vallanzasca ha passato in galera più tempo di quello che la maggior parte delle persone che io conosco abbia vissuto.

Sono a favore dei lavori in carcere: un criminale, allo stato (e quindi a me, che non ho i soldi per pagare la bolletta del telefono) costa. E allora deve cercare di ripagare, almeno in parte, me e lo stato. Oltretutto credo che, dando qualcosa da fare ai detenuti, si migliori anche la loro vita, con la possibilità di reintrodurli nella società, alla fine della pena. Perché troppo spesso ci scordiamo che il carcere non deve essere solo un castigo tipo quando a scuola il maestro ti manda dietro la lavagna e, dopo venti minuti, tutto torna come prima: il carcere dovrebbe essere un qualcosa di “correttivo” (certo: non alla maniera di Arancia Meccanica), un tentativo di “redimere” i criminali (poi, ovviamente: mancano sempre le possibilità economiche e, soprattutto, la voglia di farlo).

Quindi: no, non mi piace che Vallanzasca se ne vada in giro a pochi passi da casa mia. E’ stato un criminale efferato, i suoi crimini sono provati oltre ogni ragionevole dubbio e, anche se tutti sono certi che è cambiato (anche perché, nel frattempo, è cambiato il mondo intorno a lui: prima era un boss, adesso sarebbe solo un pesce fuor d’acqua), credo sia meglio che continui a scontare la sua pena solo in carcere. Con un trattamento il più umano possibile (brevi uscite, magari: ma sempre sotto scorta), ma senza dimenticare quello che ha fatto: certi crimini non possono andare in prescrizione.

I corpi senza vita di Luigi D’Andrea e Renato Barborini, i due agenti della Polizia Stradale uccisi al casello di Dalmine

Varie addende:

1) Nel novembre del ’76, mentre le forze dell’ordine lo stanno cercando ovunque, Vallanzasca si presenta alla redazione del “Corriere dell’Informazione” e rilascia un’intervista nella quale dice, tra le altre cose:

Non credo nella giustizia, mi hanno assolto per rapine che ho fatto io (…)

Non so dire se in questo momento la libertà valga più della mia vita. Forse no, forse vale ancora più la vita della libertà. (…) Comunque sia vale più della vita degli altri se per altri si intendono le forze dell’ordine. Spiego meglio: se davanti alla mia libertà dovesse essere compromessa la vita di un povero disgraziato che va alla Breda preferirei rientrare in carcere, tanto so che ne uscirei di nuovo. Perché oggi come oggi di soldi ce ne ho e posso pagarmene quanti ne voglio di carcerieri.


Anche se, poi, alla prova dei fatti, Vallanzasca è quello che non si fa problemi a strappare un bambino dalle braccia del nonno e a farsene scudo durante la sparatoria di Piazza Vetra, pochi giorni prima, o, in un’occasione precedente, a sparare alle parti alte delle vetrine di un supermercato, per costringere gli agenti a fermarsi ad aiutare i clienti feriti permettendogli di scappare

2) Vallanzasca e le donne, dal libro “Poliziotto senza pistola” di Achille Serra:

Il caso più emblematico che mi sia capitato è quello della figlia di un noto imprenditore della Milano bene, rapita dalla banda Vallanzasca. Il padre è un uomo di un’arroganza fuori dal comune. Lei è giovane, giovanissima, ha appena 17 anni. E molto, molto bella. E’ una ragazza stile anni Settanta: minigonne molto corte, aggressiva, disinibita, contestatrice.

A un tratto, da ragazzina viziata qual è, si trova nelle mani di Renato Vallanzasca (…). Ventotto anni, il fascino nero del cattivo, lo sguardo che ti trapassa, l’eccitazione che dà il sapere che potrebbe ucciderti in un attimo…

Il nome Vallanzasca in quegli anni era sinonimo di garanzia di cibo, letto, bagno e, in quel caso particolare, anche di telefono e televisione. Con un’ingenuità e un’incoscienza forse tipica dell’età e della sua condizione di privilegiata, la ragazza vive i 40 giorni del suo sequestro quasi come un’avventura. E si innamora del bel René, forse complice l’atmosfera del Natale e dei fiocchi di neve che imbiancavano la città. Un giorno, per caso, venimmo a sapere che mentre lei era teoricamente tenuta in ostaggio, in realtà se ne andava spesso a ballare con il suo “moroso” in un locale in fondo al Naviglio Grande. Del resto chi avrebbe potuto riconoscerli? E come tutte le coppie litigavano e poi facevano la pace. Lei se ne andava da quella che doveva essere la sua prigione e minacciava di tornarsene a casa. E una volta lo fece davvero.

Dopo una lite furibonda andò a bussare alla porta del padre, che sentì la sua voce e si precipitò ad aprire. Ma era già arrivato Vallanzasca. E bastò un cenno con la testa per convincerla a salire in macchina con lui. Quando il padre arrivò ad aprire la porta non trovò nessuno fuori. Ma la sua non era stata solo una sensazione, aveva sentito davvero la voce della figlia.
Una volta finito il sequestro, quando lei capì che non era più il caso di frequentare la Banda della Comasina, trovammo l’appartamento dove era stata tenuta. Decidemmo di portarla lì per scoprire qualche dettaglio. “Mai stata qui prima d’ora”, dice scontrosa, quasi contrariata dall’ipotesi che noi, poveri poliziotti (e, secondo me pensava, “anche un po’ idioti”), stavamo percorrendo.

“Non ho mai visto questo posto.”

“E’ sicura, signorina? Non le ricorda niente? Guardi che lei qui c’è stata, e anche per molto tempo”, ribatto deciso.

“Assolutamente certa. Mai stata qui.”

Rimaniamo una mezzoretta in quei pochi metri quadrati arredati in modo sommario. Ma è quando stiamo per andarcene, ormai sconfitti, che arriva la sorpresa: mentre sta per uscire dalla porta, apre il cassetto del comò che era proprio accanto all’ingresso, e prende una gomma americana.

A quel punto era tutto chiaro. Era arrivata la conferma: chi poteva sapere, senza mai essere entrato prima in una casa, che dentro un cassetto qualsiasi, di un mobile qualsiasi, ci fosse qualcosa di suo interesse? Quello era il segno evidente che era stata lì, non da sequestrata, ma quasi da vera padrona di casa.

Incredibile: il padre aveva sborsato alcuni miliardi di lire, una cifra astronomica per l’epoca, e i soldi non erano mai stati trovati, così come i sequestratori. Sapevamo tutto ma non avevamo le prove per dimostrarlo.

p.s.: i soldi del sequestro vennero, secondo le dichiarazioni di Antonio Colia, il braccio destro di Vallanzasca, bruciati in una vasca da bagno durante le tre ore di trattative per la resa della banda

Emanuela Trapani, la probabile protagonista del rapimento di cui parla Serra

3) Vallanzasca e le donne parte 2, sempre da “Poliziotto senza pistola”. Si parla del 1987, l’anno della fuga dal traghetto:

Tanto più che durante una serie di udienze che lo vedevano imputato a Spoleto, aveva conosciuto una bellissima giornalista, che non aveva saputo resistere al fascino “nero” del boss della Comasina. E la cosa non poteva che essere reciproca, vista la ragazza in questione. Avevo avuto modo di conoscerla perché si occupava di cronaca e quindi era fissa in Questura a Milano. Ne eravamo tutti un po’ innamorati: si presentava con minigonne mozzafiato, che messe addosso a un fisico statuario come il suo lasciavano senza parole. (…) Il trasferimento del detenuto a Nuoro, infatti, era stato deciso dopo che nella sua cella erano state trovate, nascoste in un buco nel muro, alcune lettere che testimoniavano un fitto rapporto epistolare tra i due. Nell’ultimo scritto di Vallanzasca, non ancora spedito, si leggeva chiara la sua volontà di arrivare il prima possibile da lei: “Indossa il tuo vestito più bello e prepara una cenetta a lume di candela, fra poco sarò da te”, scriveva. (…) “Lui torna a Milano, non c’è dubbio. Dobbiamo appostarci sotto casa della giornalista e prenderlo alla prima mossa falsa”, dico ai miei due interlocutori. (…) Due giorni dopo la fuga, iniziano i nostri pedinamenti. Ecco, la ragazza sta scendendo. Con lei c’è anche il suo fidanzato. Un bacio e poi prende l’auto e se ne va. Lui si volta verso di noi ed entra in un’altra vettura. Parte. Lei torna molte ore più tardi. E’ sola. Sale nell’appartamento ma non succede niente (…) E’ così per giorni e giorni, finché lei si insospettisce a vedere quel giro di persone sotto casa e va a riferirlo al suo direttore che due minuti dopo è al telefono con il Questore Catalano. Convocati d’urgenza, dire che veniamo strigliati è eufemismo. Dobbiamo porgere le scuse alla testata e alla signorina e chiaramente cessare ogni attività investigativa nei suoi confronti. (…) Ma la sorpresa più grande per me arrivò pochi giorni dopo il suo ritorno in cella. Durante un interrogatorio, svelò il segreto dei suoi primi giorni da fuggiasco. Rimasi a bocca aperta.

“Quando sono scappato sono andato subito a Milano, da una mia amica. Sono salito nell’appartamento. Abbiamo cenato e… diciamo che abbiamo passato una bella serata. I dettagli è meglio che non ve li racconti. Vi lascio solo immaginare cosa può combinare uno che è da dieci anni in gattabuia e certe cose se le sogna e basta!”

Allora avevo ragione! Sentii una fortissima sensazione di rivalsa salirmi dentro. “Altro che scuse alla giornalista e al suo direttore! Sono loro che devono farle a me! E anche di corsa!”

Vallanzasca a Sarnico, 22 agosto 2012